(17 Giugno 1952)
Non possiamo mai dire: le cose vanno bene. Semmai: le cose
non vanno male. Dobbiamo essere paranoici. Il percorso è difficilissimo. Siamo
dei sopravvissuti e l'onore dei sopravvissuti è sopravvivere.
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Trovavo Gianni Agnelli una persona affascinante. Mi
interessava soprattutto il suo contorno, ciò che riusciva a muovere con una
parola, un gesto.
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Non parliamo di gente che fa borse, io faccio vetture. Con
quanto lui investe in un anno in ricerca e sviluppo, noi non ci facciamo
nemmeno una parte di un parafango. La smetta di rompere le scatole! [in polemica con Diego Della Valle]
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Un leader Fiat per me deve avere la capacità di accettare il
cambiamento, di gestire le persone che dipendono da lui e di convertire i
ventimila capi intermedi del gruppo.
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Una volta ero affezionato ai numeri dispari. Uno, tre,
cinque... Come Montezemolo. Arrivato alla Fiat ho cambiato idea, ho deciso di
privilegiare i pari. Mi sembrano più adatti al gruppo. Confortano.
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Dei miei collaboratori faccio valutazioni continue, ogni
giorno do loro i voti.
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Ho grande rispetto per gli operai e ho sempre pensato che le
tute blu quasi sempre scontino, senza avere responsabilità, le conseguenze
degli errori compiuti dai colletti bianchi.
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L'Italia è un paese che deve imparare a volersi bene, deve
riconquistare un senso di nazione.
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La leadership non è anarchia. In una grande azienda chi
comanda è solo. La collective guilt, la responsabilità condivisa, non esiste.
Io mi sento molte volte solo.
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Non posso accettare che tre persone mi
blocchino un intero stabilimento, questa è anarchia non democrazia.
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Mi sveglio di solito alle cinque del mattino e per un paio
d'ore leggo i giornali. Prima il Financial Times e il Wall Street Journal, poi
quelli italiani: Repubblica, Corriere, il Sole, la Stampa. I quotidiani
italiani hanno articoli bellissimi, straordinari pezzi culturali, ma resto
sempre perplesso sulle troppe pagine dedicate alla politica, soprattutto a un
certo tipo di politica.
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Non credo assolutamente alla regola che più sono giovani più
sono bravi. Anzi. Sono per il riconoscimento delle capacità delle persone, che
abbiano trenta o sessant'anni.
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Se ho un metodo è un metodo che si ispira
a una flessibilità bestiale con una sola caratteristica destinata alla
concorrenza: essere disegnato per rispondere alle esigenze del mercato. Se
viene meno a questa regola è un metodo che non vale un tubo.
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Non mi frega assolutamente nulla del potere. Rispetto i
ruoli, il potere a livello istituzionale, quello sì. È un insegnamento di mio
padre, che era maresciallo dei carabinieri. Il mio è un potere industriale che
cerco di esercitare con cura, rimanendo fedele agli obblighi morali. Nulla di
ciò che faccio è mosso da interessi personali. Incontro politici soltanto per lavoro,
non frequento salotti torinesi, milanesi, romani.
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In tutta sincerità non riesco a vedere un
mio futuro dopo la Fiat. Non è la prima azienda che ho risanato, ma è senza
dubbio quella che credo mi stia permettendo di esercitare tutte le mie
capacità. Temo di non avere dentro di me l'energia per un altro ciclo di questa
intensità.
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Ho una paura: che il gruppo Fiat dopo i
buoni risultati ottenuti cominci a sedersi. Ho individuato qualche sintomo. Qua
e là. Un malessere durato poco, ma che pure c'è stato. Ma a tutti dico,
attenti. A chi si siede io gli tolgo la sedia di sotto.
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Qualsiasi debito verso lo Stato è stato
ripagato in Italia, non voglio ricevere un grazie, ma non accetto che mi si
dica che chiedo assistenza finanziaria.
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Di nuovi modelli ne abbiamo quanti se ne
vuole, dobbiamo però dare ai nostri stabilimenti la possibilità di produrre ed
esportare, gli impianti devono essere competitivi, altrimenti non possono
produrre e vendere niente.
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Quanto è avvenuto negli USA deve essere
letto in Italia in modo positivo. Se è possibile farlo là è possibile farlo
anche qui. Deve cambiare però l'atteggiamento. La gente ringraziava per quello
che è stato fatto, invece di insultare.
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